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‘Rivoluzione Corporativa’. Intervista a Simone Di Stefano

‘Rivoluzione Corporativa’. Intervista a Simone Di Stefano (estratto dal libro ‘Corporativismo del III° Millennio)

D. Come sei giunto a maturare interesse nei confronti del corporativismo ?
R. Per esempio attraverso “Valori Corporativi”, un libro di Rutilio Sermonti di cui parlammo anche in una delle prime conferenze a CasaPound e che cerca di riproporre quell’esperienza nella società di oggi. La prima difficoltà, in effetti, è quella di pensare il corporativismo senza quella specifica architettura statale. La corporazione ha senso se è inserita in un contesto organico, non deve essere un corpo separato dallo Stato. Non deve essere come l’ordine dei giornalisti odierno, mettiamo, cioè un ente che ti permette di avere sconti dal dentista e basta. La mia idea è quella di un organismo che, nel momento in cui tu decidi la strada che vuoi intraprendere nella vita, ti accompagna, ti indirizza e ti sostiene.
D. Nella destra radicale l’allergia agli studi economici è sempre stata forte. In questo credo abbia influito anche una certa malintesa critica dell’economia in quanto tale, della scienza economica in sé, quasi che già occuparsene fosse un compromesso con un mondo a noi alieno, non credi?
R. E’ vero ed è assurdo, perché l’economia è la politica. Non la esaurisce, ovviamente, e da essa deve essere governata, ma ne costituisce la spina dorsale. Del resto negli anni del boom economico, per esempio, l’impressione è che in Italia nessuno si sia interessato dell’economia semplicemente perché in quegli anni sembrava che l’economia andasse da sé. Era un impressione fallace: l’economia andava da sé perché c’era uno Stato in buona parte modellato dal fascismo e grazie al Piano Marshall. Logico che ci fosse il boom. Nessuno, tanto meno a destra, si è posto il problema di immaginare un sistema economico differente. Purtroppo la cosiddetta destra radicale non sempre è stata in grado di confrontarsi con la realtà. E’ stata magari profetica da altri punti di vista (la critica della globalizzazione, per esempio), ma sull’economia si è spesso spinto l’acceleratore semplicemente sulla guerra fra poveri, calcando la mano sul tema dell’immigrazione. CasaPound ha riportato questo mondo alla concretezza, con proposte reali e centrate sui problemi quotidiani delle persone. Di questi, del resto, non sembra proprio occuparsene più nessuno. Ci dispiace, anzi, che per entrare nella discussione politica nazionale a volte anche noi siamo costretti a friggere aria. Lo faremo sempre a malincuore, mentre continuiamo a fare tutto il resto, ciò che davvero ci dà soddisfazione e ci piace fare: essere sulle barricate, diventare avanguardia di popolo, essere scudo e spada dell’Italia.

D. Il corporativismo, in qualche modo, non può essere considerato una forma di democrazia diversa? Chiamiamola “democrazia organica”, “democrazia funzionale”, “democrazia qualitativa”. Chiamiamola come ci pare. Ma si tratta pur sempre di individuare un altro modello di rappresentatività, no?
R. Per noi il corporativismo significa più partecipazione. E’ per questo che proponiamo, nel nostro programma, di farla finita con un bicameralismo inutile e di sostituire il Senato con una Camera del Lavoro che garantisca la rappresentatività armonica di tutte le categorie lavorative e produttive. Insomma, vogliamo uno Stato in cui il singolo sia rappresentato non solo in virtù delle sue opinioni politiche, come accade adesso con il regime dei partiti, ma anche in base alla posizione e alla funzione che svolge nel contesto della comunità nazionale. Questa è una qualche forma di democrazia? Non lo so, so solo che il fascismo non aveva paura delle parole e parlava in continuazione di un qualche superamento organico della democrazia anziché di una sua negazione pura e semplice, non vedo perché dovremmo averne noi…

D. Ma un sistema pensato per rappresentare delle categorie produttive in un quadro relativamente statico come era quello della prima metà del Novecento può sopravvivere nel mondo del ‘lavoro liquido’, dove tutto è in continua ridefinizione?
R. Certo. Il corporativismo – come il fascismo in generale – segue la società nelle sue evoluzioni, non ha ricette ideologiche precostituite, è pragmatico, sa cambiare con i cambiamenti del mondo circostante. Il corporativismo del terzo millennio sarà diverso da quello novecentesco così come quello novecentesco era diverso da quello, mettiamo, medioevale.

D. Insomma, CasaPound non propone di tornare indietro nel tempo a una qualche dimensione idilliaca in cui non esistano problemi sociali, è questo che mi stai dicendo?
R.  Per dire: anche il fascismo chiedeva sacrifici. Per esempio per portare la lira a quota 90. In alcuni casi ha abbassato le paghe, è vero. Ma a fronte di un blocco degli affitti. Tutt’altra storia è quella di abbassare gli stipendi e chiedere sacrifici perché l’Italia deve competere con i lavoratori del Terzo Mondo che vivono in condizioni di sfruttamento ottocentesco. Torniamo al discorso di prima: se c’è uno Stato, se c’è una comunità che sa stringersi insieme, ogni difficoltà si può superare. Se manca lo Stato, manca tutto.

D. Qualcuno ti darebbe del populista…
R. Forse è vero quello che dicono, forse siamo populisti. In fondo è una bella parola, richiama il popolo, questa entità ormai scomparsa dalla politica, che invece preferisce seguire i mercati e delegare loro la propria sovranità, continuando nonostante tutto a farsi chiamare democrazia. Forse è vero, anche io sono un populista, perché, quando sento uno che mi dice “lei non ha studiato l’economia”, metto mano alla pistola (metaforicamente, si intende). Anche perché questi fenomeni del liberismo sono quelli che di fatto ci hanno portato nella crisi, disarticolando pezzo per pezzo la presenza dello Stato nelle vicende economiche. Appena lo Stato è scomparso, infatti, i soloni del liberismo hanno iniziato a stampare i soldi falsi, i derivati, gli swap. Ovvero hanno fatto crescere l’albero dei soldi dove neanche il gatto e la volpe erano riusciti in cotanta impresa. Falsari della peggiore risma, ecco cosa sono.

D. Effettivamente l’impressione che ci prendano per i fondelli è forte…
R. Quando senti parlare di “investitori stranieri”, per esempio, ti viene in mente lo zio ricco emigrato o comunque una persona in carne ed ossa che decide di investire, appunto, un capitale guadagnato con il proprio lavoro in nome della fiducia che ritiene di avere su un progetto di Stato e di civiltà. E invece hai a che fare solo con un usuraio coi soldi falsi. E’ tutta una truffa, una truffa “costruita intorno a te”, perché si basa sulla moneta che porti in tasca e che non è tua, non è del tuo popolo, di per sé neanche esiste perché si basa sul nulla.

D. Chi dovrebbe difenderci da questi falsari?
R. La politica, probabilmente. E invece proprio lì il trucco diventa più dozzinale e i mestieranti più sguaiati. E’ davvero dura guardarli in televisione – mentre fanno finta di litigare dopo aver governato per un anno e mezzo insieme, dopo averci proposto programmi in fotocopia – e resistere alla tentazione di spaccare la tv.

D. E quindi?
R. Quindi l’unica alternativa al circo dei falsari va cercata fuori dai partiti vecchi e nuovi e fuori dalle effimere novità dell’antipolitica, ovvero nella sola comunità che ha la forza della militanza autentica, il fuoco di una fede vera, le idee nuove di chi ha progetti e soluzioni per uscire dalla crisi. Come un nuovo spirito corporativista, per esempio. In fondo, a ben vedere, l’alternativa che abbiamo di fronte è chiara: da una parte tutti i falsari, tutti i cialtroni, quelli che ci hanno fottuto il futuro e che hanno dilapidato ciò che avevamo ereditato da epoche di passione e di conquista sociale. Dall’altra la tua terra, i tuoi fratelli, il lavoro, la comunità, lo Stato, la nazione. La rivoluzione.

Tratto da
“Corporativismo del III Millennio”


http://www.latestadiferro.org/os/product_info.php?products_id=1912
http://www.orionlibri.net/negozio/corporativismo-del-iii-millennio/

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